Denise ha iniziato i primi di settembre il suo progetto di Corpo Europeo di Solidarietà (ESC) “JA:hr für Europa”, a Lipsia, in Germania. In questo articolo ci racconta un po’ della sua storia, prima della partenza, fino ad oggi.
“Non sapevo se avessi preso la decisione giusta, ma di certo, avevo capito che davvero non avrei potuto lasciarmi sfuggire un’occasione simile”
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Quando sono partita non avevo un motivo “pratico” per farlo. Avevo appena terminato un secondo ciclo di studi universitari (il primo linguistico e il secondo musicale), avevo un lavoro part-time, che nulla aveva a che fare con i miei studi, ma retribuito, con contratto, e che mi permetteva di avere tempo e denaro sufficiente per continuare a studiare musica al di fuori dell’università.
La mia vita stava prendendo una direzione più concreta, “asciutta” (nel senso di essere fatta di cose essenziali, le uniche sulle quali volessi concentrarmi): oltre al lavoro e alle lezioni di musica c’erano gli amici, un nuovo rapporto da scoprire con mia sorella, magari un’attività sportiva, altri progetti da sviluppare e percorsi personali da affrontare, più “spirituali”. Per non parlare di un virus mondiale dilagato da pochi mesi.
Conoscevo già queste opportunità di volontariato, esperienze all’estero di una bella durata che ho sempre desiderato fare, avendo studiato lingue straniere al liceo e all’università ed essendo tanto curiosa del mondo e di me stessa in mezzo ad esso e di quanto sarei potuta crescere. Arrivata all’età di 29 anni in una situazione che verteva finalmente in una maggiore “stabilità” e serenità rispetto al mio passato, avevo messo da parte l’idea di partire lasciando tutto per un anno.
Ma, quasi per caso, leggo in rete di questo progetto in ambito musicale in Germania, a Lipsia, non una città qualunque per me (ma non vi svelerò il motivo :P). Questo progetto era lo specchio di me stessa, metteva insieme i miei studi e le mie passioni: la musica e il tedesco, la Germania, che avevo già avuto il piacere di conoscere e vivere per un po’. Tutto è stato molto veloce, anche perché ho risposto ad un “last minute calling” per questo progetto di volontariato per una sola persona.
Non ero realmente consapevole di quello che sarebbe potuto succedere da lì a poco, né tanto meno lo ero quando mi era stato riferito di essere stata scelta per quel progetto.
Nell’arco di una settimana avrei varcato i confini del mio Paese e ci sarei rimasta per un anno. Non sapevo se avessi preso la decisione giusta, ma di certo, parlando con Eleonora della mia sending organisation MOH, avevo capito che davvero non avrei potuto lasciarmi sfuggire un’occasione simile: il progetto giusto, prima di andare oltre il limite di età consentito per questo volontariato e una possibilità di crescita non indifferente.
Arrivata in Germania ho dovuto affrontare qualche giorno di quarantena e un test covid (fortunatamente negativo), ma è stato del tempo ben trascorso con gli altri volontari che hanno svolto lo stesso iter.
Svolgo quindi il mio volontariato nel centro socio-culturale “Die Villa”, un luogo di incontro e accoglienza per ragazzi adolescenti e di età più adulta, dove si svolgono diverse attività, come la danza, il teatro, la musica, comunicazione e media, fotografia, scrittura ecc. Io faccio parte del “dipartimento musicale”, più nota come la “Keller”, termine tedesco che significa “cantina”. Questo perché effettivamente si trova nel seminterrato dell’edificio, il posto più figo, a mio parere, ma forse io sono di parte 😛
Tra le mie attività, che si svolgono prevalentemente nel pomeriggio, affianco dei pedagoghi musicali che fanno musica con i ragazzi, si creano delle band e si suona tutti insieme. C’è un gruppo di persone in particolare che mi colpisce: ragazzi e adulti con disabilità mentali o fisiche che suonano insieme e riescono a seguire la musica e, anche nella disarmonia a volte riescono ad essere un gruppo unito che funziona, qualcosa di nuovo vien fuori e quando li guardo, anche sorridere ed essere felici, credo ancora di più nei miracoli.
C’è una donna più o meno cieca che segue la musica e canta, ed è in quel momento che capisco ancora di più quando il musicista Ezio Bosso diceva che la musica ci insegna la cosa più importante che esista, ossia ascoltare. Frequento inoltre un corso di scrittura – prosa, poesia, canzoni – in tedesco ovviamente ed è qui che per ora faccio un lavoro doppio, prima di scrittura in italiano e poi di traduzione in tedesco; almeno fino a quando non avrò maggiore padronanza della lingua.
C’è anche un corso di teatro in inglese, frequentato da persone di diversa nazionalità, un “community theatre”, un “teatro dell’oppresso”. Un percorso emotivamente forte, direi. E poi, il lunedì sera abbiamo il nostro “Open stage”, un concerto aperto durante il quale ogni musicista può salire sul palco e suonare e cantare un massimo di tre canzoni, cover o inediti, ed è un momento molto bello perché chi fa musica ha l’opportunità di performare liberamente su un palco davanti a tante persone (relativamente poche in tempo di covid, ma il concetto resta lo stesso).
Per me è una possibilità per conoscere nuovi musicisti e nuova musica, in lingua tedesca, che non ascoltavo da molti anni. In questa occasione mi occupo della parte tecnica, ossia quella di gestire il palco e montare gli strumenti, operazione che ho scoperto gasarmi abbastanza; diventerò una brava backliner 😛 ed imparo ad utilizzare un mixer che mi permette di monitorare il suono degli strumenti. Disponiamo anche di un laboratorio per la musica elettronica e diverse sale prove con diversi strumenti musicali.
La mia stanza preferita è quella dove abbiamo un antico pianoforte a muro, una stanza che mi trasmette calore e “storia”. Mi rifugio lì quando ho bisogno di suonare per me stessa o quando semplicemente voglio continuare a studiare. Attualmente il centro è chiuso, per questo lockdown parziale, ahimè, ma stiamo portando alcune attività online, come quella dell’Open stage, per la quale ci connettiamo online, noi da qui dal palco e la gente da casa, possiamo passare ancora del tempo insieme condividendo la nostra musica.
Durante il primo periodo ho continuato a chiedermi se avessi preso la decisione giusta, avendo lasciato qualcosa che stavo già creando, con la vita che va avanti e le carte che si possono rimescolare per tutti.
Con la paura di perdere qualcosa, forse. Ma, la crescita esponenziale che sento dentro di me e la possibilità di poter imparare così tanto sia in questo campo lavorativo, sia di me stessa (percorsi che ritengo fondamentali), mi fanno capire che sì, ho preso la decisione giusta. Perché forse, questo genere di esperienza, lontano da casa e dalla tua vita di sempre, è uno di quei rari momenti in cui puoi davvero solo gestire la tua esistenza, libero di farne quello che desideri e forse capire un po’ di più o esattamente dove vuoi andare.