Se dovessi nominare una costante nel modo in cui penso al transfemminismo, nel modo in cui attraverso l’analisi politica cerco di posizionarmi nel mondo, parlerei senza ombra di dubbio del diritto alla complessità. Infatti, provando a ricostruire le storie delle figure femminili e femminilizzate – collocate ai margini della società – le maggiori difficoltà si trovano nel processo di reperimento delle informazioni e nei processi di appiattimento e violenza messi in atto dalle informazioni stesse. Non c’è possibilità di auto-narrazione: le voci vengono silenziate, le reazioni sminuite, le rivoluzioni patologizzate. Se l’obiettivo è quello di preservare lo status quo, questo meccanismo di semi-cancellazione è lo stratagemma perfetto allo scopo: sappiamo che sono esistite, viene loro concesso di essere ricordate, ma solo come isteriche impazzite, personalità sensibili che non hanno retto le pressioni, soggetti pericolosi, devianti, anormali. Sembra essere questo il destino di chi è evasa dall’angolo in cui veniva costretta: l’oblio selettivo. Sono gli uomini che raccontano, che scelgono quali parti delle storie diffondere e da quale punto di vista – di conseguenza, il destino di tutte queste figure è quello di suscitare pietà e/o disgusto.
Ma cosa succede quando si prova collettivamente a ricostruirne la narrazione? Cosa succederebbe se venisse loro restituita la complessità di persone, invece di relegarle al ruolo di dannosi imprevisti? Questo procedimento di graduale riscoperta è stato proprio quello messo in atto, per esempio, nel caso di Valerie Solanas: scrittrice, femminista, lesbica, soggetto politico rivoluzionario. Autrice di SCUM Manifesto, pensatrice anarchica e sovversiva, non basterebbe di certo uno spazio limitato a raccontare chi fosse e chi ancora sia in potenza – quanto tutto ciò che ha scritto, teorizzato e vissuto ancora risuoni nell’esperienza femminista e sia portatore di significato. Eppure, spesso la troviamo riassunta in un trafiletto, un paio di righe al massimo: Valerie Solanas è stata “la donna che sparò a Andy Warhol”. Questa definizione (con tutte le varianti del caso) si può trovare in ogni paragrafo mainstream che la descrive, e che spesso non ha da dire nient’altro al riguardo. Non esiste un prima né un dopo: la donna viene ridotta a quel momento estrapolato dal contesto, la sua intera vita viene racchiusa in questo atto.
Se immaginassimo il mondo e la società in cui viviamo come un cielo, allo stato dei fatti Valerie Solanas sarebbe una cometa, o un asteroide: un corpo celeste effimero che si vede per il tempo di un lampo. Non si sa da dove arrivi, non si sa dove stia andando, e in fondo ci viene detto che non è nemmeno importante saperlo. La sua luce – il momento in cui è visibile – corrisponde a quell’unico breve attimo della sua vita costantemente nominato, esplorato, osservato con curiosità becera. La sua intera personalità, i suoi pensieri, tutto viene ricondotto all’atto di aver premuto il grilletto. Per questo motivo, in tempi più recenti c’è stato un impellente bisogno di andare a ricostruire la sua figura, attraverso le ripubblicazioni dei suoi scritti, l’assemblamento di varie narrazioni che le restituissero giustizia, il riconoscimento dell’eredità femminista che ha lasciato con la sua presenza.
Valerie Solanas nasce il 9 aprile del 1936 nel New Jersey e – da persona socializzata donna – ha dovuto sopportare le conseguenze della violenza patriarcale: subì abusi sessuali in ambito familiare, fu costretta a dare via un figlio per potersi finanziare gli studi, fu vittima di atti di bullismo dovuti al suo coming out. Si iscrisse all’università, ma la abbandonò a causa dell’ambiente estremamente sessista che si trovò davanti, e si trasferì a New York guadagnandosi da vivere facendo la cameriera, la sex worker, o qualunque tipo di lavoro trovasse. Da queste sue esperienze, leggendole attraverso una lente più universale, iniziò a strutturare una lucida analisi societale che sfociò poi nella sua opera più famosa: SCUM Manifesto, letteralmente “il manifesto della feccia”. Il testo si configura come una riflessione estremamente concreta, un invito alle donne a “rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile”. Con invidiabile ironia e una scrittura puntuale, Solanas auspica la fine del dominio maschile, descrivendo l’uomo come causa del male imperante nella società, poiché privo di intelligenza emotiva, egocentrico, un soggetto mancante (privo del gene x che le donne hanno). Sono i suoi disperati tentativi di compensazione che portano a catastrofi come la guerra o l’assoggettamento dell’altro genere, che permettono alla società di essere organizzata in modo iniquo, che determinano l’uso del potere. In quest’ottica, soltanto la ricomposizione dal basso potrà portare al ribaltamento delle strutture gerarchiche e al loro abbattimento: a una ricostruzione radicale.
Questo modo di scrivere molto diretto e provocatorio, orientato all’azione, la portò a essere ostracizzata da molti ambienti, tra cui persino quelli femministi. Solanas era quindi un’esclusa dagli esclusi, tratto che si accentuò quando – dopo aver proposto di mettere in scena un suo pezzo teatrale, Up your Ass, a Andy Warhol, famoso per le rappresentazioni che sfidavano la buona società – si accorse del sessismo dilagante anche nel mondo culturale. Infatti, Warhol rifiutò la sua idea perché considerata oscena, nonostante lui stesso portasse a teatro numerosi spettacoli controversi, a volte anche interrotti dalle forze dell’ordine. Probabilmente, la vera motivazione era connessa alla figura di Solanas: donna scomoda che voleva farsi strada in un ambiente prettamente maschile con delle opere crude, sfacciate, e che mostravano senza troppi giri di parole tutta la violenza agita dal patriarcato. Povera ed emarginata, la sua persona venne sfruttata dallo stesso Warhol, che si appropriò del suo lavoro plagiandone delle parti e non restituendoglielo. Fu allora che Valerie Solanas attentò alla sua vita, non riuscendo purtroppo a ucciderlo.
Da quel momento, la vita dell’autrice diventò un susseguirsi di psichiatrizzazioni e ricoveri forzati: le venne diagnosticata la schizofrenia e venne ospedalizzata numerose volte, abbandonata sia fisicamente che politicamente, dato che quello che venne descritto come un folle atto (e che, alla luce di tutta la sua storia, assume un’accezione totalmente diversa) la portò a essere dimenticata o – forse ancora peggio – a essere ricordata come la pazza dell’attentato, nel senso più sminuente e disumanizzante del termine. In un irrimediabile circolo vizioso, tutto questo la condusse all’oblio più totale: le violenze psichiatriche subite, la rimozione forzata dell’utero, la sua morte avvenuta in sordina in un motel di San Francisco tra quelli che la gente considerava reietti. Non c’è mai stata, per lei, via di scampo.
Fortunatamente, negli ultimi tempi le sue opere sono state riprese e si è tentato di restituire a Valerie Solanas la sua complessità di persona, di donna vissuta nella società patriarcale, di pensatrice contro gli schemi sociali; ma i retaggi del processo di appiattimento e oblio a cui è stata sottoposta sono ancora evidenti e condizionano il modo in cui viene ricordata, considerata, studiata. Eppure, se io provassi a immaginare il mondo e la società in cui viviamo come un cielo, Valerie Solanas sarebbe una stella: anche se scomparsa, anche se lontana, la sua luce continua a giungere fino a noi ben oltre i limiti del tempo e dello spazio, perché le sue parole e i suoi pensieri hanno una rilevanza politica e sociale che trascende la sua morte.
Sulla base di questa prospettiva volta a considerare la sua personalità a tutto tondo, si può quindi evitare la visione dicotomica del bene e del male, ammettendo che dell’ambivalenza – specialmente quando riguarda soggettività marginalizzate – si può e si deve narrare. Lungo il corso della sua vita, Valerie Solanas non ha avuto quest’opportunità, riservata esclusivamente agli uomini. Come si può osservare chiaramente prendendo in esame la dinamica con Andy Warhol, infatti, egli viene spesso ricordato solamente come grande artista e viene spogliato di tutte le dinamiche sessiste che perpetrava con i suoi comportamenti.
Re-immaginando Valerie, la sua storia e la sua eredità, se mi concentro specificatamente sull’unico evento della sua vita a cui è stata sempre ingiustamente ricondotta, c’è una domanda che risuona nella mia mente: è vero, lei aveva la pistola in mano, ma chi ha ucciso chi?